martedì 30 aprile 2013

L'INCUBO DELLA MERKEL SI CHIAMA ZANONATO

Il neoministro dello Sviluppo Economico Flavio Zanonato propone oggi quello che il sottoscritto, che non conta nulla, ma soprattutto tutti i maggiori economisti mondiali (esclusi ovviamente i professori a libro paga della Ue), che invece dovrebbero contare molto, dicono da mesi, anzi da anni: bisogna rinegoziare i Trattati europei o dalla recessione non se ne esce.

E bravo Zanonato, bella idea rinegoziare in Europa, finalmente c'è arrivato anche lei e il suo ineffabile partito del "Sogno Europeo"! Però, se non vogliamo rinegoziare solo le briciole, una domanda sorge spontanea. E se la Germania ci dice di no, che non vuole rinegoziare, come CERTAMENTE dirà, lei che farà? E' disposto a dire ai tedeschi: "o accettate di negoziare oppure usciamo dall'euro e magari non aderiamo più neppure al regime di libera circolazione dei capitali"? E poi è disposto eventualmente a mettere in atto la minaccia? Ha elaborato con Letta e Saccomani un piano segreto e dettagliato di uscita dalla moneta unica, ovviamente sperando di non doverlo attuare? No, perché se non è disposto a agire con questa risolutezza e non ha elaborato un bel nulla, glielo dico subito io, è meglio che a trattare non ci andiate neppure. Evitate almeno di fare la figura del topolino che minaccia l'elefante.

Post scriptum - Questo governo è guidato dagli stessi partiti che hanno approvato entusiasticamente il fiscal compact, il MES, il pareggio di bilancio e simili. Nessuno perciò è meno adatto di Pd-Pdl-Scelta Civica per chiedere una profonda revisione dei Trattati europei. Queste forze politiche non avrebbero infatti alcuna credibilità e giustamente i tedeschi a costoro potrebbero dire: "Perché egregi Monti, Bersani, Letta, Berlusconi, solo pochi mesi fa vi siete mobilitati personalmente per fare firmare dei trattati che ora non volete rispettare? Siete i soliti italiani traditori e voltagabbana, per caso?", direbbero. E stavolta avrebbero anche ragione.

domenica 28 aprile 2013

ANCORA UNO SFORZO

"Questo governo ricorda un animale fantastico, mitologico, con molte teste ma un solo cervello con due emisferi separati: quello destro è Berlusconi che sarà prescritto, quello sinistro la finanza internazionale che spolperà l'Italia" (dal blog di Beppe Grillo).

Giustissimo, Beppe. Adesso però è ora di essere ancora più chiari. Assodato che l'antiberlusconismo era solo di facciata e che comunque alla fine non si è rivelato così importante, prova a insistere sull'aspetto realmente pericoloso di questo governo: il suo asservimento alle politiche ottusamente liberiste e recessive dei mercati e della Bce. Prendi una posizione, smetti di perdere il tempo dietro la battaglia di retroguardia contro la Casta corrotta e sprecona, e comincia finalmente a schierarti senza ambiguità con chi sostiene che un Paese non può essere messo alla fame per rimborsare gli investimenti e i prestiti scriteriati dei mercati.

sabato 27 aprile 2013

IL VERO ERRORE DI BEPPE GRILLO

Come volevasi dimostrare, Beppe Grillo e il M5S, una volta ottenuto voti e seggi parlamentari in quantità significativa e pericolosa, vengono attaccati, silenziati o scherniti da un apparato mediatico che in gran parte fa gli interessi dei partiti tradizionali e quindi non vede l'ora di scagliarsi contro chi questi interessi vuole abbattere o almeno mettere in discussione. 

Tra tante critiche ingiuste e strumentali (tra cui quella di aver favorito il governissimo, come se i responsabili non fossero Pd e Pdl e come se la proposta Rodotà non fosse stata avanzata) ce ne sono però alcune che condivido. Per esempio, mi lascia molto perplesso il sistema di selezione della classe dirigente: se devi fare politica a certi livelli e per di più hai contro non solo gli altri partiti, ma un sistema dell'informazione che gioca contro, devi far eleggere gente veramente in gamba. Più in gamba di quella che possono permettersi di scegliere gli altri partiti. Purtroppo invece, assieme a persone preparate, i M5S ha mandato in Parlamento anche soggetti come Mastrangeli o come la Lombardi, che sarà anche brava, come dicono i militanti della prima ora, ma fa raccapriccianti scivoloni mediatici.

Ma l'errore principale di Beppe Grillo è un altro. Ed è un errore tanto grave quanto poco dibattuto: perché il leader del M5S non chiarisce una volta per tutte quale è la posizione del movimento sulla politica economica e sociale? Già, perché dal mondo dei Cinque Stelle arrivano indicazioni confuse e contradditorie. La base del movimento è l'unico luogo politico italiano, oltre alla sinistra radicale, che mette in discussione la moneta unica e che ospita le analisi di grandi economisti come Stiglitz, Krugman, Roubini, De Grauwe (giganti della teoria economica, altro che Monti, Padoan, Boldrin e compagnia!), i quali dimostrano inoppugnabilmente che l'attuale crisi non è dovuta al debito pubblico ma al debito privato, che si accumula drammaticamente in presenza di un cambio fisso. Per tutti coloro che non si accontentano della vulgata liberista e delle fallaci diagnosi della Bce e di Mario Monti - diagnosi che ci stanno portando alla rovina - il M5S sembrerebbe quindi essere una ragione di speranza. Tanto più che i parlamentari del movimento hanno appena inaugurato un Laboratorio di economia che si ispira proprio alla critica al sistema eurista e liberista. 
Ma poi arrivano le esternazioni sul tema di Beppe Grillo. E allora non ci si capisce più nulla. Grillo infatti continua, un giorno sì e l'altro pure, a demonizzare il debito pubblico, a insistere sul "rischio-fallimento" dell'Italia, a sottolineare che la colpa è della classe dirigente corrotta e sprecona. Insomma, finisce per dare ragione esattamente alle analisi di Monti e di questo Pd di destra: la crisi è colpa nostra, abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, siamo un popolo di corrotti, è giusto che gli stranieri decidano per noi, dobbiamo tagliare e risparmiare, fino alla odiosa battuta dell'altro giorno: "Sarebbe meglio che i tedeschi ci invadessero". Alla fine viene da chiedersi: la linea di politica economica del M5S è quella della base, dei parlamentari, del Laboratorio di economia o è quella dettata nelle sue esternazioni da Grillo? 

Purtroppo, vista la sua popolarità, la risposta è che a contare di più sono le sparate di Grillo. E allora ci sentiamo in dovere di avvisare il leader del M5S: caro Grillo, con queste affermazioni non fai altro che metterti sullo stesso piano della classe dirigente che dici di combattere e che sta affondando l'economia reale del Paese. Vuoi o non vuoi farti carico dei dibattiti che si svolgono tra i tuoi militanti, nei quali si sostiene ciò che praticamente tutta la comunità accademica internazionale certifica, ovvero che la crisi europea è data non dai debiti pubblici dei Paesi ma dai debiti privati (squilibri della bilancia commerciale) che si accumulano in presenza del cambio fisso? Vuoi o non vuoi aprire un serio dibattito su come riformare questa moneta unica e su che cosa fare nel caso le proposte di riforma siano tutte rifiutate dai tedeschi? Oppure preferisci fare della demagogia sulla casta e sulla corruzione, che magari ti servirà anche a distinguerti dai partiti tradizionali e a prendere qualche voto in più, ma che alla lunga fa solo il gioco di chi sostiene che la recessione è colpa della spesa pubblica (ossia dello Stato sociale e dei diritti dei lavoratori!) e che per salvarsi bisogna necessariamente tagliarla (ossia massacrare lo Stato sociale e i diritti dei lavoratori)? 

Il tempo delle ambiguità è finito, Grillo si sbrighi e spinga il M5S ad avviare nel Paese quel serio  dibattito economico sulle fallimentari politiche europee che il sedicente centro-sinistra ha finora silenziato. Altrimenti finirà per ridurre il movimento a una dei tanti fenomeni populisti che il sistema delle democrazie rappresentative ogni tanto genera e che poi velocemente assorbe. Cioè, a un'avventura politica breve e irrilevante.

giovedì 25 aprile 2013

TANTO RUMORE PER (QUASI) NULLA

Sono settimane di grande polemiche, di melodrammi, di passioni attorno alle vicende della politica, dall'elezione del nuovo Presidente della Repubblica alla formazione del famoso "governo di larghe intese". Secondo me, però, si è fatto e si fa tanto rumore per nulla. O comunque per molto poco. Finché infatti rimane questa Ue e questo euro, così strutturati e concepiti (perché con altre e per ora improbabilissime riforme le cose cambierebbero), la nostra classe politica - almeno per quanto riguarda le questioni economico-sociali, e scusate se è poco - conta molto meno di quanto si pensi
Lo spazio di manovra consentito da Bruxelles ai governi nazionali è talmente limitato che il fatto che il nuovo premier sia Enrico Letta, suo zio Gianni, Giuliano Amato, Romano Prodi o qualsiasi altro dei protagonisti della telenovela di questi giorni, sostanzialmente non fa molta differenza. Il perché - occultato in buona o cattiva fede dal sistema della (dis)informazione e da una classe politica subordinata ai mercati e ai tecnocrati - lo aveva chiarito benissimo già 20 anni fa l'economista inglese Wynne Godley, subito dopo la firma del Trattato di Maastricht. Ecco cosa scrisse Godley nel 1992: "La creazione di una moneta unica nella Comunità Europea dovrebbe porre fine alla sovranità delle sue nazioni componenti e alla loro autonomia di intervento sulle questioni di maggior interesse. (...) il potere di emettere la propria moneta, di fare movimentazioni sulla propria banca centrale, è la cosa principale che definisce l’indipendenza nazionale. Se un paese rinuncia o perde questo potere, acquisisce lo status di un ente locale o colonia. Le autorità locali e le regioni, ovviamente, non possono svalutare. Ma si perde anche il potere per finanziare il disavanzo attraverso la creazione di denaro, mentre altri metodi di ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione centrale. Né si possono modificare i tassi di interesse. Poiché le autorità locali non sono in possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica si limita a questioni relativamente minori: un po’ più di istruzione qui, un po’ meno infrastrutture lì.  Penso che quando Jacques Delors pone l’accento sul principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che [gli stati membri dell'Unione europea] saranno autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti di quanto si possa aver precedentemente supposto. Forse ci lascerà tenere i cetrioli, dopo tutto. Che grande affare!".
Riflettete prima di perdere altro tempo a dibattere di Rodotà, Prodi, Letta, Berlusconi. Il potere, quello che determina il nostro futuro di benessere o di crisi, sta altrove.

sabato 20 aprile 2013

POSSIBILE?

Vorrei chiedere agli elettori e militanti Pd che oggi si stracciano le vesti per i dirigenti "incapaci e traditori" e che sostengono "noi siamo il partito, non loro": ma per chi avete dato il vostro voto e messo tutte le vostre energie in questi anni? Possibile che in 20 anni non abbiate capito da chi fosse composta la vostra classe dirigente? Possibile che dopo 20 anni in cui il problema Berlusconi non è stato risolto, non vi sia mai venuto in mente che forse era sempre mancata la volontà di risolverlo? Possibile che, dopo aver visto le infami e tra l'altro inutili manovre del governo dei banchieri, non vi sia mai sfiorato il dubbio che il vostro partito, appoggiando Mario Monti (e con zelo!), stava tradendo i suoi ideali? E ancora: chi li ha eletti i dirigenti incapaci e traditori? Chi li ha difesi quando qualcuno, magari di sinistra e da sinistra, si è permesso di criticarli? Avete ascoltato le critiche oppure le avete respinte con sdegno al mittente, quando non con arroganza? Chi ha votato alle "magnifiche" Parlamentarie tanto strombazzate quegli stessi 101 che ieri hanno impallinato Prodi?
 
Mi spiace, elettori e militanti del Pd, siete corresponsabili di questa situazione e senza autocritica non ne uscirete. Avete avuto 20 anni per giudicare questa gente, l'avete difesa contro ogni evidenza, avete mandato giù di tutto pur di difendere la bandiera, adesso che salta il tavolo non potete chiamarvi fuori. In politica non conta soltanto avere buone intenzioni. Bisogna capire la realtà. E, quando si sbaglia bisogna saperlo dire.

L'IMPLOSIONE DEL PD E LA CECITA' DELLA BASE


Oggi avrei voluto cambiare argomento ma i clamorosi eventi delle ultime ore mi inducono a parlare ancora una volta del Partito Democratico. L'implosione del Pd, che il sottoscritto nel suo piccolo aveva abbondantemente preannunciato a conoscenti e amici piddini, ottenendo in risposta scetticismo misto a derisione o addirittura ostilità, è finalmente iniziata. La base, costituita dai semplici militanti ma anche da una pletora di quadri locali terrorizzati dall'idea di perdere il loro piccolo regno e di dover ammettere di aver cavalcato per anni il cavallo sbagliato, se la prende con i vertici e scarica tutte le responsabilità  sull'infedeltà di quei 101 franchi tiratori che hanno impallinato Romano Prodi nel segreto dell'urna. Si tratta però di un'analisi ancora una volta parziale e insufficiente, che individua nei comportamenti di un gruppo di "traditori" (presumibilmente dalemiani) la debolezza di un partito che invece ha ben altri problemi.

Quando un partito è pieno di franchi tiratori, vuol dire che è diviso (manca cioè una linea precisa) e che non ha una leadership (è la leadership che fa convergere i voti di tutti i parlamentari anche nel voto segreto, non la presunta moralità e sincerità di chi vota). E questa è precisamente la situazione in cui da anni si trova il Pd. Certo, esistono anche i conflitti tra vecchi leader (ex Margherita contro ex Pds, dalemiani contro prodiani, renziani contro bersaniani e via di questo passo), ma tali conflitti esplodono e diventano determinanti soltanto nel momento in cui non esiste una identità, e quindi una linea, comune e condivisa e quando il leader non ha più la fiducia dei suoi dirigenti, non è più temuto, ammirato o stimato. La politica ha sempre funzionato così, non con patetiche richiami alla fedeltà, alla correttezza, al coraggio di dire quello che si pensa (quando mai in politica si dice sempre quello che si pensa?), come dicono per darsi coraggio i militanti.

Che il Pd non abbia una leadership non mi sembra neppure il caso di dimostrarlo. Gli errori clamorosi di Bersani, che qualche anima bella in campagna elettorale esaltava scambiandolo addirittura per uno statista, parlano da sè. Non è neppure il caso di infierire. Credo però che sia palese anche il fatto che il Pd non ha un'identità  (e quindi non possa avere una linea comune): una triste realtà che solo l'antiberlusconismo ha occultato per tanti anni. Il Pd dovrebbe ringraziare Berlusconi (che infatti si è guardato bene dal combattere sul serio) perché è solo grazie al grande nemico che ha retto tanti anni in assenza di una chiara strategia. Il Pd si dichiara partito di centro-sinistra, ma da anni fa politiche liberiste e libero-scambiste che sono patrimonio del conservatorismo. Si dichiara fedele all'eredità del Pci e alle lotte del movimento dei lavoratori ma poi si allea e soprattutto applaude entusiasta a Mario Monti, alla Bce e alle sue politiche inique. Si dichiara partito rappresentativo dei cattolici democratici ma allo stesso tempo ha una forte componente laicista e radicaleggiante, col risultato che su una lunga serie di questioni etiche non prende mai una chiara posizione.  Ha una componente movimentista che vorrebbe l'alleanza con il M5S e Rodotà presidente della Repubblica, quando però la maggioranza dei dirigenti guarda, da anni e anni, al centro. Dice di detestare la democrazia diretta grillina e del web salvo poi fare marcia indietro su Franco Marini per accontentare la piazza e la Rete. E potrei continuare con altri esempi. A dimostrazione che il Pd è un grosso contenitore di posizioni contradditorie, alcune manifestamente di destra (vedi Renzi), tra loro incociliabili e tenute assieme solo dall'odio (formale) per Silvio Berusconi. Una pianta storta, un pastrocchio, una "cosa" senza direzione di marcia che merita solo di esplodere.

Purtroppo i militanti, che sono spesso solo tifosi della politica aggrappati a una bandiera, e i funzionari di partito (che, in una struttura di apparato come il Pd sono tanti e contano), impauriti all'idea di perdere il loro piccolo potere o di dover dire "abbiamo sbagliato", non la vogliono capire e si illudono che cacciando via i traditori dalemiani tutto cambi. Intanto dovrebbero spiegarci come fanno a identificare e cacciare questi presunti traditori, visto tra l'altro che li hanno votati gli stessi elettori con le tanto strombazzate parlamentarie (complimenti quindi anche al mitico "popolo del Pd" che manda in Parlamento simili canaglie, bisognerebbe dire se si usasse la stessa logica della base!). Ma poi, anche ammettendo che si riesca a eliminare la componente dalemiana, il Pd continuerebbe a mantenere al suo interno tante di quelle componenti e di quelle contraddizioni, che nuovi problemi e nuove figuracce si ripresenterebbero immediatamente. La cosa più saggia sarebbe lo smantellamento di questo fallimentare partito e la creazione di più forze politiche, di cui una autenticamente di sinistra, non stupidamente giustizialista e moralista, ma capace di schierarsi coi lavoratori e per la difesa dello Stato sociale. Mi auguro che la base piddina lo capisca e la smetta di voler raddrizzare a tutti i costi una pianta nata e cresciuta storta. Non mi sembra però di vedere ancora quell'autocritica spietata e sincera che sola può portare al cambiamento. Spero di sbagliarmi.

sabato 13 aprile 2013

LE FROTTOLE DI BERSANI

Una manifestazione contro la povertà organizzata dal Pd dovrebbe suscitare gli stessi sorrisi di compatimento che provocherebbe una manifestazione contro la corruzione e il conflitto di interessi organizzata dal Pdl. Invece, mentre sulla sceneggiata davanti al Palazzo di Giustizia di Milano dei parlamentari pidiellini di qualche settimana fa si è scatenata la giusta indignazione della stampa non berlusconiana, sullo scempiaggine odierna messa in scena dal Pd i principali giornali e le principali televisioni non eccepiscono quasi nulla. La ragione è molto semplice: per mesi e mesi i media hanno accettato la vulgata piddina secondo cui "la crisi economica è stata provocata da Berlusconi", che ci ha portato "sull'orlo del baratro" da cui ci hanno salvato le politiche di Mario Monti, al quale il principale partito del centro-sinistra italiano, o sedicente tale, ha dovuto dare l'appoggio "per senso di responsabilità". Fare dietro front oggi, e dire che la crisi è anche colpa del Pd, per la stampa italiana è evidentemente piuttosto difficile. Significherebbe ammettere di avere clamorosamente sbagliato la valutazione degli eventi per mesi: meglio tacere e raccontare la manifestazione senza troppi commenti.

Eppure, chi ha un minimo di cultura economica, sa ormai che la succitata vulgata piddina, che tra l'altro Mario Monti ha sempre cavalcato, è il risultato di un'analisi falsa dalla testa ai piedi. Nessuno, tantomeno il sottoscritto, nega che Berlusconi abbia fatto malissimo a sottovalutare la recessione e che il suo governo sia stato un cattivo esempio di immobilismo. Ma dire che la recessione che sta distruggendo questo Paese sia colpa sua o di Tremonti, è una sciocchezza cui nessun economista serio dà il minimo credito. Ci sono innumerevoli studi, per esempio nei blog e nei siti che segnalo tra i link consigliati, che spiegano come la recessione sia il frutto degli squilibri commerciali dell'Eurozona aggravati poi dalle miopi politiche di austerità della Bce. Una crisi di debito privato e debito estero e non una crisi di debito pubblico. Del resto, se la colpa della nostra situazione fosse di Berlusconi, perché mai Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro (e tra poco sarà anche il turno della Francia) stanno come o peggio di noi? Berlusconi è stato primo ministro anche in questi Paesi?

So per certo (ma non posso rivelare la fonte) che queste cose Fassina e Bersani (e probabilmente buona parte dei dirigenti del Pd) le sanno perfettamente. Sanno che Berlusconi non c'entra nulla con la recessione, che la crisi è stata causata dall'euro, che il governo Monti che il Pd ha appoggiato con zelo ha solo peggiorato le cose. Sanno come stanno le cose. Ma mentono e continuano a mentire, anche se la strada della menzogna ha già fruttato al partito una pesante sconfitta elettorale e gli ha alienato le simpatie dei lavoratori e delle persone a basso reddito, che hanno capito che il Pd non li tutela e non l'hanno votato. 

Oggi Bersani dice: «Vengono a dire a noi che la situazione è drammatica e bisogna fare qualcosa dopo che per anni hanno detto che i ristoranti erano pieni. Basta con la demagogia dopo demenziali panzane e alla politica attorcigliata sugli interessi di qualcuno». Gli rispondiamo francamente: si Bersani, lo diciamo a te di fare qualcosa, perché se gli italiani, soprattutto coloro che tu dovresti rappresentare, cioè le classi medio-basse, sono stati impoveriti dall'euro e poi massacrati da riforme liberiste e inique fatte al solo scopo di rimborsare i creditori tedeschi e francesi, la colpa è soprattutto del Pd. Nessuno come il Pd (ovvero il Pds-Ds-Pd) ha spinto perché l'Italia adottasse questa sciagurata moneta unica, nessuno quanto il Pd ha promosso quelle riforme in senso liberista che tanto piacevano ai grandi gruppi finanziari e industriali (dalle privatizzazioni delle grandi banche e imprese pubbliche, allo smantellamento dell'Iri) che alla fine non hanno fatto altro che impoverire lo Stato senza dare vantaggi sostanziali ai consumatori. Nessuno come il Pd ha esaltato l'opera di Mario Monti e ne ha appoggiato con tanta compattezza i provvedimenti. La crisi, caro Bersani, è responsabilità anche (e forse più che di qualunque altra forza politica) del Pd. Per questo riteniamo ridicolo e immorale che il tuo partito, senza fare la minima autocritica, insceni una manifestazione contro la povertà.

domenica 7 aprile 2013

PIANTI GRECI

Da quando è iniziata la recessione, quindi già da alcuni anni, i talk show politici propongono continuamente servizi o collegamenti di piazza nei quali piccoli imprenditori, artigiani, commercianti raccontano le loro tristi storie e lanciano una rabbiosa e disperata richiesta di aiuto ai politici. Un copione tristemente consolidato che si conclude sempre con frasi del tipo: "Basta chiacchiere, politici, fate qualcosa per la gente", "Perché non ascoltate le esigenze della piccola impresa, che è la spina dorsale del Paese?", "Qui ogni giorno le imprese e i negozi chiudono, la gente si suicida e voi nel Palazzo non agite, anzi non vi siete neppure tagliati gli stipendi". Manifestazioni di questo tipo sono senz'altro drammatiche e sincere ma - duole dirlo - non servono in realtà a nulla, nemmeno ad alzare lo share dei programmi che le ospitano, visto che al senso di pietà subentra ormai l'assuefazione. E il motivo è presto detto: questa gente, che ha gravi problemi ed è disperata, alla classe politica, magari presente in studio, fa richieste generiche che non colgono il cuore del problema

E' inutile appellarsi ai costi della casta: la causa dei fallimenti e dei suicidi non sono certo i vitalizi o le auto blu, fattori che incidono in misura ridicola sul Pil, anche se hanno un forte valore simbolico. Ma ancora più inutile è accusare i politici di "non fare nulla per il Paese", "non pensare alla piccola impresa e al commercio" e via di questo passo. I rappresentanti dei partiti avranno infatti sempre gioco facile nel rispondere che non è vero, che si impegnano, che lottano, che hanno fatto questa o quella proposta di legge. La verità è che le categorie dei lavoratori (e questo vale anche per i sindacati del pubblico impiego e delle grandi imprese) dovrebbero prima avere chiare le cause della recessione, poi chiedere ai politici di eliminare o ridurre quelle cause. Senza capire l'economia e cosa veramente sta distruggendo il lavoro e il commercio, sarà impossibile mettere i politici davanti alle loro responsabilità. Ovvio che non tutti i lavoratori e i piccoli commercianti possono diventare degli esperti di macroeconomia. Ma oggi, se non vuoi essere triturato da un sistema dell'informazione asservito ai poteri politici o semplicemente superficiale, almeno un po' anche il panetterie e il piccolo imprenditore devono studiare. E sicuramente hanno il dovere di studiare almeno i dirigenti delle associazioni di categoria, sempre pronti a fare la contabilità dei fallimenti, dei suicidi e della disoccupazione ma incapaci di indicare chiaramente ai loro iscritti le vere cause di questo dramma: leggi che favoriscono la speculazione finanziaria, movimenti indiscriminati dei capitali, drammatici squilibri dovuti alla moneta unica europea che non possono certo essere superati finché il nostro governo accetterà follie come il Fiscal Compact e i parametri imposti dalla Bce.

Se i politici verranno incalzati a fare la loro parte per rivedere i Trattati europei e a introdurre misure che limitano o tassano la speculazione finanziaria, allora si muoveranno per paura di perdere voti e consensi. Ma finché le lamentele saranno generiche o si rivolgeranno all'obiettivo sbagliato o quantomeno secondario, non cambierà mai nulla. Bisogna che le associazioni di categoria e io sindacati dicano chiaramente ai lavoratori che rappresentano che, finché siamo prigionieri di questa Europa, soldi per investire e superare la recessione non ne avremo mai. E che quindi è su questo punto che bisogna incalzare la classe politica. Lo faranno? Il tempo stringe e per ora non vedo nessuna volontà in questa direzione. Purtroppo sindacati e associazioni di categoria sono diretti in molti casi da persone legate al ceto politico e ai partiti tradizionali e rappresentano una burocrazia, probabilmente anche priva della necessaria cultura economica, che difende lo status quo e non vuole disturbare i manovratori. Figuriamoci se costoro hanno voglia di mettere all'angolo una classe politica che ha sempre fatto quello che desiderava la grande finanza e la lobby di Bruxelles.

Ps- Uno dei dirigenti di categoria più attivi è il presidente della CGIA (Associazione Artigiani e Piccole Imprese di Mestre) Giuseppe Bortolussi. Spesso intervistato in televisione e sui giornali, promuove e pubblica attraverso la CGIA frequentissimi studi sul mondo dell'artigianato, il commercio, la piccola e media impresa, infarciti di numeri sconfortanti sulle cadute dei fatturati, i fallimenti, la disoccupazione e così via. Ha anche appena pubblicato un libro dal titolo inequivocabile, "L'economia dei suicidi". Secondo Bortolussi, le cause dei disastri che con tanto rilievo racconta nei suoi studi e nel suo libro è la cattiva amministrazione dell'economia italiana, tra burocrazia, tasse, sprechi e inefficienze. L'euro, il Fiscal Compact, l'Europa? Quasi mai citati. Eppure Bortolussi dovrebbe ricordarsi - visto che all'epoca era già alla guida della CGIA - che una ventina di anni fa l'economia andava molto meglio nonostante burocrazia, tasse, sprechi e inefficienze esistessero come oggi. Eravamo italiani anche nel 1994, no? Perché Bortolussi, tanto bravo a raccogliere dati sul dramma sociale della recessione, non si pone anche qualche domanda sulle evidenti responsabilità dell'Europa? Non sarà mica perché da anni ricopre cariche politiche all'interno di quel centro-sinistra che ha sempre magnificato questa moneta unica, per caso?

sabato 6 aprile 2013

RENZI VS BERSANI: UNA SFIDA IN CUI CI SI CONFRONTA SU TUTTO TRANNE CHE SULL'ESSENZIALE

Si fa un gran parlare in queste ore della possibilità che Matteo Renzi si proponga come nuovo leader del Pd e del centro-sinistra al posto di Pierluigi Bersani. Giornali e televisioni seguono appassionatamente la vicenda: del resto, che un politico giovane, sciolto e decisionista quale Renzi è (o almeno appare) abbia serie chance di guidare un partito ingessato come il Pd - un partito le cui nuove leve sembrano appena uscite da un corso di inquadramento, addestrate come sono a ripetere pari pari gli slogan della segreteria, dal "senso di responsabilità" al "ci vuole più Europa", dal "noi abbiamo fatto le primarie" al "la crisi è colpa di Berlusconi" - rappresenta, comunque la si giudichi, una novità non da poco.  

Si tratta di una sfida tra il vecchio e il nuovo che piace a tanti. Renzi contro Bersani significa, ci spiega il circo mediatico, il rottamatore contro l'uomo d'apparato, il decisionista contro il temporeggiatore, il fautore di un'alleanza con il Pdl contro l'antiberlusconiano viscerale, il comunicatore 2.0 contro il segretario che preferisce i sistemi tradizionali (che sia questo che significa il bersaniano "guardare la gente negli occhi"?), l'innovatore che non vuole inseguire Grillo ed è disposto ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti contro il conservatore che invece lo vuole soltanto ridurre "perché altrimenti solo i ricchi faranno politica". Un duello avvincente. Però, se ci pensate bene, c'è un tema sul quale l'informazione non mette a confronto Renzi e Bersani (e del quale, peraltro, Renzi e Bersani parlano poco o nulla). Eppure si tratta di un argomento essenziale, soprattutto in un momento di drammatica recessione: il programma economico. Già, proprio come era avvenuto durante la campagna per le primarie, i due contendenti parlano di tutto e vengono esaminati ai raggi X su tutto tranne che sull'economia. Perché?

Bisogna pensarci un po', mettere assieme i puntini, insomma, ma alla fine un paio di spiegazioni mi sento di formularle. La prima è che parlare di economia, lavoro, precariato, progressivo indebolimento del welfare, recessione in Italia e nell'Eurozona non conviene nè a Bersani nè a Renzi. Del resto, è da almeno un anno e mezzo che il Pd ha smesso di dibattere di temi economici. Una volta data l'adesione al governo Monti, il partito si è penosamente appiattito sulle politiche neoliberiste e ottusamente europeiste del Professore. Con l'alibi del senso di responsabilità e dell'emergenza per "il disastro causato da Berlusconi", dal novembre del 2011 alla fine del 2012 il Pd ha partecipato con uno zelo ben superiore a quello del Pdl alla macelleria sociale montiana. Pensando di vincere le elezioni assieme a Scelta Civica, Bersani ha poi fatto di tutto in campagna elettorale per farsi bello davanti a Mario Monti, di cui ha chiesto continuamente e poco dignitosamente l'appoggio, un po' come oggi chiede quello del M5S. Certo, di fronte al disastro che la cura dei tecnici ha provocato, Bersani appena prima delle elezioni ha dovuto tirare fuori il tema del lavoro. Ma lo ha fatto in modo generico e senza alcun ripensamento: riforma delle pensioni e riforma del mercato del lavoro, con tanto di abolizione dell'articolo 18, non sono mai stati messi in discussione dal segretario Pd. Bersani oggi non può più difendere in modo convincente l'esperienza del governo Monti, neppure appellandosi al "senso di responsabilità", in quanto ormai è chiaro anche ai più ottusi ciò che qualunque mediocre studente di economia poteva vedere benissimo da mesi, e che il Pd negava, ovvero che le politiche di Monti e della Bce non potevano che condurre a risultati fallimentari. D'altro lato, almeno per ora non può neanche spingersi troppo in là e dichiarare che nel governo dei professori da lui appoggiato c'è stato un grave eccesso di austerity e un pesante deficit di equità: è ancora troppo fresco il ricordo del suo insistente corteggiamento a Scelta Civica, un simile atteggiamento non risulterebbe credibile. Tutto sommato, meglio tacere. Neanche a Renzi, peraltro, fa gioco tirar fuori la questione delle politiche economiche: non è un periodo nei quali il liberismo e il montismo che il sindaco di Firenze sbandiera da sempre abbiano molta credibilità.

Ma esiste una seconda ragione per cui in questa sfida tutta interna al Pd la questione economica e sociale è quasi assente. Ed è il fatto che la base del partito si è disabituata a dibattere di certe questioni. L'elettore o il militante del Pd è stato abilmente indirizzato dai suoi dirigenti a discutere poco, pochissimo, di economia e lavoro, temi che sono stati delegati di fatto all'Europa. In occasione delle primarie si è parlato di democrazia interna, di quote rosa, diritti civili, possibili alleanze, ma una seria discussione sul perché della recessione e sul governo Monti non c'è stata. Lo stesso è avvenuto in campagna elettorale, dove l'ha fatta da padrone l'antiberlusconismo. Parlare moltissimo di Berlusconi è l'arma segreta della classe dirigente del Pd da 20 anni (e in questo, va riconosciuto, Matteo Renzi non è complice): è infatti un argomento che all'elettore piddino piace da morire, gli conferisce entusiasmo e identità, lo ringalluzisce, gli dà spirito di squadra e gli impedisce di pensare ad altro, tipo la drammatica crisi economica, il ruolo della Bce, l'euro e l'enorme potere che i tecnocrati hanno a Bruxelles e a Roma. Insomma, perché mai Renzi e Bersani dovrebbero confrontarsi su scottanti e insidiose questioni economiche quando i loro elettori si appassionano di più a parlare di casta, primarie, democrazia interna, matrimoni gay, del nuovo nemico Grillo e dell'eterno avversario Berlusconi, che Dio l'abbia in gloria?