sabato 6 aprile 2013

RENZI VS BERSANI: UNA SFIDA IN CUI CI SI CONFRONTA SU TUTTO TRANNE CHE SULL'ESSENZIALE

Si fa un gran parlare in queste ore della possibilità che Matteo Renzi si proponga come nuovo leader del Pd e del centro-sinistra al posto di Pierluigi Bersani. Giornali e televisioni seguono appassionatamente la vicenda: del resto, che un politico giovane, sciolto e decisionista quale Renzi è (o almeno appare) abbia serie chance di guidare un partito ingessato come il Pd - un partito le cui nuove leve sembrano appena uscite da un corso di inquadramento, addestrate come sono a ripetere pari pari gli slogan della segreteria, dal "senso di responsabilità" al "ci vuole più Europa", dal "noi abbiamo fatto le primarie" al "la crisi è colpa di Berlusconi" - rappresenta, comunque la si giudichi, una novità non da poco.  

Si tratta di una sfida tra il vecchio e il nuovo che piace a tanti. Renzi contro Bersani significa, ci spiega il circo mediatico, il rottamatore contro l'uomo d'apparato, il decisionista contro il temporeggiatore, il fautore di un'alleanza con il Pdl contro l'antiberlusconiano viscerale, il comunicatore 2.0 contro il segretario che preferisce i sistemi tradizionali (che sia questo che significa il bersaniano "guardare la gente negli occhi"?), l'innovatore che non vuole inseguire Grillo ed è disposto ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti contro il conservatore che invece lo vuole soltanto ridurre "perché altrimenti solo i ricchi faranno politica". Un duello avvincente. Però, se ci pensate bene, c'è un tema sul quale l'informazione non mette a confronto Renzi e Bersani (e del quale, peraltro, Renzi e Bersani parlano poco o nulla). Eppure si tratta di un argomento essenziale, soprattutto in un momento di drammatica recessione: il programma economico. Già, proprio come era avvenuto durante la campagna per le primarie, i due contendenti parlano di tutto e vengono esaminati ai raggi X su tutto tranne che sull'economia. Perché?

Bisogna pensarci un po', mettere assieme i puntini, insomma, ma alla fine un paio di spiegazioni mi sento di formularle. La prima è che parlare di economia, lavoro, precariato, progressivo indebolimento del welfare, recessione in Italia e nell'Eurozona non conviene nè a Bersani nè a Renzi. Del resto, è da almeno un anno e mezzo che il Pd ha smesso di dibattere di temi economici. Una volta data l'adesione al governo Monti, il partito si è penosamente appiattito sulle politiche neoliberiste e ottusamente europeiste del Professore. Con l'alibi del senso di responsabilità e dell'emergenza per "il disastro causato da Berlusconi", dal novembre del 2011 alla fine del 2012 il Pd ha partecipato con uno zelo ben superiore a quello del Pdl alla macelleria sociale montiana. Pensando di vincere le elezioni assieme a Scelta Civica, Bersani ha poi fatto di tutto in campagna elettorale per farsi bello davanti a Mario Monti, di cui ha chiesto continuamente e poco dignitosamente l'appoggio, un po' come oggi chiede quello del M5S. Certo, di fronte al disastro che la cura dei tecnici ha provocato, Bersani appena prima delle elezioni ha dovuto tirare fuori il tema del lavoro. Ma lo ha fatto in modo generico e senza alcun ripensamento: riforma delle pensioni e riforma del mercato del lavoro, con tanto di abolizione dell'articolo 18, non sono mai stati messi in discussione dal segretario Pd. Bersani oggi non può più difendere in modo convincente l'esperienza del governo Monti, neppure appellandosi al "senso di responsabilità", in quanto ormai è chiaro anche ai più ottusi ciò che qualunque mediocre studente di economia poteva vedere benissimo da mesi, e che il Pd negava, ovvero che le politiche di Monti e della Bce non potevano che condurre a risultati fallimentari. D'altro lato, almeno per ora non può neanche spingersi troppo in là e dichiarare che nel governo dei professori da lui appoggiato c'è stato un grave eccesso di austerity e un pesante deficit di equità: è ancora troppo fresco il ricordo del suo insistente corteggiamento a Scelta Civica, un simile atteggiamento non risulterebbe credibile. Tutto sommato, meglio tacere. Neanche a Renzi, peraltro, fa gioco tirar fuori la questione delle politiche economiche: non è un periodo nei quali il liberismo e il montismo che il sindaco di Firenze sbandiera da sempre abbiano molta credibilità.

Ma esiste una seconda ragione per cui in questa sfida tutta interna al Pd la questione economica e sociale è quasi assente. Ed è il fatto che la base del partito si è disabituata a dibattere di certe questioni. L'elettore o il militante del Pd è stato abilmente indirizzato dai suoi dirigenti a discutere poco, pochissimo, di economia e lavoro, temi che sono stati delegati di fatto all'Europa. In occasione delle primarie si è parlato di democrazia interna, di quote rosa, diritti civili, possibili alleanze, ma una seria discussione sul perché della recessione e sul governo Monti non c'è stata. Lo stesso è avvenuto in campagna elettorale, dove l'ha fatta da padrone l'antiberlusconismo. Parlare moltissimo di Berlusconi è l'arma segreta della classe dirigente del Pd da 20 anni (e in questo, va riconosciuto, Matteo Renzi non è complice): è infatti un argomento che all'elettore piddino piace da morire, gli conferisce entusiasmo e identità, lo ringalluzisce, gli dà spirito di squadra e gli impedisce di pensare ad altro, tipo la drammatica crisi economica, il ruolo della Bce, l'euro e l'enorme potere che i tecnocrati hanno a Bruxelles e a Roma. Insomma, perché mai Renzi e Bersani dovrebbero confrontarsi su scottanti e insidiose questioni economiche quando i loro elettori si appassionano di più a parlare di casta, primarie, democrazia interna, matrimoni gay, del nuovo nemico Grillo e dell'eterno avversario Berlusconi, che Dio l'abbia in gloria? 

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