Si fa
un gran parlare in queste ore della possibilità che Matteo Renzi si proponga
come nuovo leader del Pd e del centro-sinistra al posto di Pierluigi Bersani.
Giornali e televisioni seguono appassionatamente la vicenda: del resto, che un
politico giovane, sciolto e decisionista quale Renzi è (o almeno appare) abbia
serie chance di guidare un partito ingessato come il Pd - un partito le cui
nuove leve sembrano appena uscite da un corso di inquadramento, addestrate come
sono a ripetere pari pari gli slogan della segreteria, dal "senso di
responsabilità" al "ci vuole più Europa", dal "noi abbiamo
fatto le primarie" al "la crisi è colpa di Berlusconi" -
rappresenta, comunque la si giudichi, una novità non da poco.
Si tratta di una sfida tra il
vecchio e il nuovo che piace a tanti. Renzi contro Bersani significa, ci spiega
il circo mediatico, il rottamatore contro l'uomo d'apparato, il decisionista
contro il temporeggiatore, il fautore di un'alleanza con il Pdl contro l'antiberlusconiano
viscerale, il comunicatore 2.0 contro il segretario che preferisce i sistemi
tradizionali (che sia questo che significa il bersaniano "guardare la
gente negli occhi"?), l'innovatore che non vuole inseguire Grillo ed è
disposto ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti contro il conservatore
che invece lo vuole soltanto ridurre "perché altrimenti solo i ricchi
faranno politica". Un duello avvincente. Però, se ci pensate bene, c'è un
tema sul quale l'informazione non mette a confronto Renzi e Bersani (e del
quale, peraltro, Renzi e Bersani parlano poco o nulla). Eppure si tratta di un
argomento essenziale, soprattutto in un momento di drammatica recessione: il
programma economico. Già, proprio come era avvenuto durante la campagna per le
primarie, i due contendenti parlano di tutto e vengono esaminati ai raggi X su
tutto tranne che sull'economia. Perché?
Bisogna pensarci un po', mettere
assieme i puntini, insomma, ma alla fine un paio di spiegazioni mi sento di
formularle. La prima è che parlare di economia, lavoro, precariato, progressivo
indebolimento del welfare, recessione in Italia e nell'Eurozona non conviene nè
a Bersani nè a Renzi. Del resto, è da almeno un anno e mezzo che il Pd ha
smesso di dibattere di temi economici. Una volta data l'adesione al governo
Monti, il partito si è penosamente appiattito sulle politiche neoliberiste e
ottusamente europeiste del Professore. Con l'alibi del senso di responsabilità
e dell'emergenza per "il disastro causato da Berlusconi", dal novembre
del 2011 alla fine del 2012 il Pd ha partecipato con uno zelo ben superiore a
quello del Pdl alla macelleria sociale montiana. Pensando di vincere le
elezioni assieme a Scelta Civica, Bersani ha poi fatto di tutto in campagna
elettorale per farsi bello davanti a Mario Monti, di cui ha chiesto
continuamente e poco dignitosamente l'appoggio, un po' come oggi chiede quello
del M5S. Certo, di fronte al disastro che la cura dei tecnici ha provocato,
Bersani appena prima delle elezioni ha dovuto tirare fuori il tema del lavoro.
Ma lo ha fatto in modo generico e senza alcun ripensamento: riforma delle
pensioni e riforma del mercato del lavoro, con tanto di abolizione
dell'articolo 18, non sono mai stati messi in discussione dal segretario Pd. Bersani
oggi non può più difendere in modo convincente l'esperienza del governo Monti,
neppure appellandosi al "senso di responsabilità", in quanto ormai è
chiaro anche ai più ottusi ciò che qualunque mediocre studente di economia
poteva vedere benissimo da mesi, e che il Pd negava, ovvero che le politiche di
Monti e della Bce non potevano che condurre a risultati fallimentari.
D'altro lato, almeno per ora non può neanche spingersi troppo in là e
dichiarare che nel governo dei professori da lui appoggiato c'è stato un grave
eccesso di austerity e un pesante deficit di equità: è ancora troppo fresco il
ricordo del suo insistente corteggiamento a Scelta Civica, un simile
atteggiamento non risulterebbe credibile. Tutto sommato, meglio tacere. Neanche
a Renzi, peraltro, fa gioco tirar fuori la questione delle politiche
economiche: non è un periodo nei quali il liberismo e il montismo che il
sindaco di Firenze sbandiera da sempre abbiano molta credibilità.
Ma esiste una seconda ragione per cui in questa sfida tutta interna al Pd la questione economica e sociale è quasi assente. Ed è il fatto che la base del partito si è disabituata a dibattere di certe questioni. L'elettore o il militante del Pd è stato abilmente indirizzato dai suoi dirigenti a discutere poco, pochissimo, di economia e lavoro, temi che sono stati delegati di fatto all'Europa. In occasione delle primarie si è parlato di democrazia interna, di quote rosa, diritti civili, possibili alleanze, ma una seria discussione sul perché della recessione e sul governo Monti non c'è stata. Lo stesso è avvenuto in campagna elettorale, dove l'ha fatta da padrone l'antiberlusconismo. Parlare moltissimo di Berlusconi è l'arma segreta della classe dirigente del Pd da 20 anni (e in questo, va riconosciuto, Matteo Renzi non è complice): è infatti un argomento che all'elettore piddino piace da morire, gli conferisce entusiasmo e identità, lo ringalluzisce, gli dà spirito di squadra e gli impedisce di pensare ad altro, tipo la drammatica crisi economica, il ruolo della Bce, l'euro e l'enorme potere che i tecnocrati hanno a Bruxelles e a Roma. Insomma, perché mai Renzi e Bersani dovrebbero confrontarsi su scottanti e insidiose questioni economiche quando i loro elettori si appassionano di più a parlare di casta, primarie, democrazia interna, matrimoni gay, del nuovo nemico Grillo e dell'eterno avversario Berlusconi, che Dio l'abbia in gloria?
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